Ripropongo questo articolo di Giampaolo Pansa del 2015, lui che di liberazione e di resistenza se ne intendeva merita una appronfodita lettura.
Gli anniversari dovrebbero essere aboliti. Soprattutto quando celebrano un evento politico che si presta a una giostra di opinioni non condivise. Accade così per il settantesimo del 25 aprile 1945, la festa della liberazione.
Una cerimonia che suscita ancora contrasti, giudizi incattiviti e tanta retorica. A volte un mare di retorica, uno tsunami strapieno anche di bugie e di omissioni dettate dall’ opportunismo politico. Per rendersene conto basta sfogliare i quotidiani e i settimanali di questa fine di aprile. È da decenni che studio e scrivo della nostra guerra civile. Ma non avevo mai visto il serraglio di oggi. Una fiera dove tutto si confonde. Dove imperano le menzogne, le reticenze, le pagliacciate, le caricature. È vero che siamo una nazione in declino e che ha perso la dignità di se stessa. Però il troppo è troppo.
Per non essere soffocato dalla cianfrusaglia, adesso proverò a rammentare qualche verità impossibile da scordare. La prima è che la guerra civile conclusa nel 1945, ma con molte code sanguinose sino al 1948, fu un conflitto fra due minoranze. Erano pochi i giovani che scelsero di fare i partigiani e i giovani che decisero di combattere l’ultima battaglia di Mussolini. Il «popolo in lotta» tanto vantato da Luigi Longo, capo delle Garibaldi, non è mai esistito. A perdere furono i ragazzi di Salò, i figli dell’ Aquila repubblicana. Ma a vincere non furono quelli che avevano preso la strada opposta. L’Italia non venne liberata da loro. Se il fascismo fu sconfitto lo dobbiamo ad altri giovani che non sapevano quasi nulla di un Paese che dal 1922 aveva obbedito al Duce e l’aveva seguito in una guerra sbagliata, combattuta su troppi fronti. La vittoria e la libertà ci vennero donate dai migliaia di ragazzi americani, inglesi, francesi, canadesi, australiani, brasiliani, neozelandesi, persino indiani, caduti sul fronte italiano. E dai militari della Brigata Ebraica, che oggi una sinistra ottusa vorrebbe escludere dalla festa del 25 aprile.
Gli stranieri e gli italiani si trovarono alle prese con una guerra civile segnata da una ferocia senza limiti. Qualcuno ha scritto che la guerra civile è una malattia mentale che obbliga a combattere contro se stessi. E svela l’animo bestiale degli esseri umani. Tutti gli attori di quella tragedia potevano cadere in un abisso infernale. Molti lo hanno evitato. Molti no. Eccidi, torture, violenze indicibili non sono stati compiuti soltanto dai nazisti e dai fascisti. Anche i partigiani si sono rivelati diavoli in terra.
In un libro di memorie scritto da un comandante garibaldino e pubblicato dall’Istituto per la storia della Resistenza di Vercelli, ho trovato la descrizione di un delitto da film horror. Una banda comunista, stanziata in Valsesia, aveva catturato due ragazze fasciste, forse ausiliarie. E le giustiziò infilando nella loro vagina due bombe a mano, poi fatte esplodere.
La ferocia insita nell’animo umano era accentuata dalla faziosità ideologica. La grande maggioranza delle bande partigiane apparteneva alle Garibaldi, la struttura creata dal Pci e comandata da Longo e da Pietro Secchia. È una verità consolidata che tra le opzioni del partito di Palmiro Togliatti ci fosse anche quella della svolta rivoluzionaria. Dopo la Liberazione sarebbe iniziata un’altra guerra. Con l’obiettivo di fare dell’Italia l’Ungheria del Mediterraneo, un Paese satellite dell’Unione Sovietica.
I comunisti potevano essere più carogne dei fascisti e dei nazisti? No, perché chi imbraccia un’ arma per affermare un progetto totalitario, nero o rosso che sia, è sempre pronto a tutto. Ma esiste un fatto difficile da smentire: le stragi interne alla Resistenza, partigiani che uccidono altri partigiani, sono tutte opera di mandanti ed esecutori legati al Pci.
La strage più nota è quella di Porzûs, sul confine orientale, a 18 chilometri da Udine. Nel pomeriggio del 7 febbraio 1945, un centinaio di garibaldini assalgono il comando della Osoppo, una formazione di militari, cattolici, monarchici, uomini legati al Partito d’Azione e ragazzi apolitici. Quattro partigiani e una ragazza vengono soppressi subito. Altri sedici sono catturati e tutti, tranne due che passano con la Garibaldi, saranno ammazzati dall’8 al 14 febbraio. Un assassinio al rallentatore che diventa una forma di tortura. In totale, 19 vittime.
La strage ha un responsabile: Mario Toffanin, detto “Giacca”, 32 anni, già operaio nei cantieri navali di Monfalcone, un guerrigliero brutale e un comunista di marmo. Ha due idoli: Stalin e il maresciallo Tito. Considera la guerriglia spietata il primo passo della rivoluzione proletaria. Ma l’assalto e la strage gli erano stati suggeriti da un dirigente della Federazione del Pci di Udine. Di lui si conosce il nome e l’estremismo da ultrà che gioca con le vite degli altri.
È quasi inutile rievocare le imprese di Franco Moranino, “Gemisto”, il ras comunista del Biellese. Un sanguinario che arrivò a uccidere i membri di una missione alleata. E poi fece sopprimere le mogli di due di loro, poiché sospettavano che i mariti non fossero mai giunti in Svizzera, come sosteneva “Gemisto”. Il Pci di Togliatti difese sempre Moranino e lo portò per due volte a Montecitorio e una al Senato. Anche lui come “Giacca” morì nel suo letto.
Tra le imprese criminali dei partigiani rossi è famoso il campo di concentramento di Bogli, una frazione di Ottone, in provincia di Piacenza, a mille metri di altezza sull’Appennino. Dipendeva dal comando della Sesta Zona ligure ed era stato affidato a un garibaldino che oggi definiremmo un serial killer. Tra l’estate e l’autunno del 1944 qui vennero torturati e uccisi molti prigionieri fascisti. Le donne venivano stuprate e poi ammazzate. Soltanto qualcuno sfuggì alla morte e dopo la fine della guerra raccontò i sadismi sofferti.
A volte erano dirigenti rossi di prima fila a decidere delitti eccellenti. Le vittime avevano comandato formazioni garibaldine, ma si rifiutavano di obbedire ai commissari politici comunisti. Di solito questi crimini venivano mascherati da eventi banali o da episodi di guerriglia.
Uno di questi comandanti, Franco Anselmi, “Marco”, il pioniere della Resistenza sull’Appennino tortonese, dopo una serie di traversie dovute ai contrasti con esponenti del Pci, fu costretto ad andarsene nell’Oltrepò pavese.
Morì l’ultimo giorno di guerra, il 26 aprile 1945, a Casteggio per una raffica sparata non si seppe mai da chi. Negli anni Sessanta, andai a lavorare al Giorno, diretto da Italo Pietra che era stato il comandante partigiano dell’Oltrepò. Sapeva tutto del Pci combattente, della sua doppiezza, dei suoi misteri.
Quando gli chiesi della fine di Anselmi, mi regalò un’occhiata ironica. E disse:
«Vuoi un consiglio? Non domandarti nulla. Anselmi è morto da vent’ anni. Lasciamolo riposare in pace».
Un’altra fine carica di mistero fu quella di Aldo Gastaldi, “Bisagno”, il numero uno dei partigiani in Liguria. Era stato uno dei primi a darsi alla macchia nell’ottobre 1943, a 22 anni. Cattolico, sembrava un ragazzo dell’oratorio con il mitragliatore a tracolla, coraggioso e altruista. Divenne il comandante della III Divisione Garibaldi Cichero, la più forte nella regione. Era sempre guardato a vista dalla rete dei commissari comunisti della sua zona.
Nel febbraio 1945, il Pci cercò di togliergli il comando della Cichero, ma non ci riuscì. Alla fine di marzo Bisagno chiese al comando generale del Corpo volontari della libertà di abolire la figura del commissario politico. E quando Genova venne liberata, cercò di opporsi alle mattanze indiscriminate dei fascisti.
Non trascorse neppure un mese e il 21 maggio 1945 Bisagno morì in un incidente stradale dai tanti lati oscuri. In settembre avrebbe compiuto 24 anni. Ancora oggi a Genova molti ritengono che sia stato vittima di un delitto. Sulla sua fine esiste una sola certezza.
Con lui spariva l’unico comandante partigiano in grado di fermare in Liguria uninsurrezione comunista diretta a conquistare il potere. Scommetto mille euro che nessuno dei due verrà ricordato nelle cerimonie previste un po’ dovunque. Al loro posto si farà un gran parlare delle cosiddette Repubbliche partigiane. Erano territori conquistati per un tempo breve dai partigiani e presto perduti sotto l’offensiva dei tedeschi. Le più note sono quelle di Montefiorino, dell’ Ossola e di Alba.
Nel 1944, Montefiorino, in provincia di Modena, contava novemila abitanti. Con i quattro comuni confinanti si arrivava a trentamila persone. L’ area venne abbandonata dai tedeschi e i partigiani delle Garibaldi vi entrarono il 17 giugno. La repubblica durò sino al 31 luglio, appena 45 giorni. Fu un trionfo di bandiere rosse, con decine di scritte murali che inneggiavano a Stalin e all’Unione Sovietica.
Vi dominava l’indisciplina più totale. Al vertice c’era il Commissariato politico, composto soltanto da comunisti. Il caos ebbe anche un lato oscuro: le carceri per i fascisti, le torture, le esecuzioni di militari repubblicani e di civili. Ma nessuno si preoccupava di difendere la repubblica. Infatti i tedeschi la riconquistarono con facilità.
La repubblica dell’Ossola nacque e morì nel giro di 33 giorni, fra il settembre e l’ottobre del 1944. Era una zona bianca, presidiata da partigiani autonomi o cattolici. E incontrò subito l’ostilità delle formazioni rosse. Cino Moscatelli, il più famoso dei comandanti comunisti, scrisse beffardo:
«A Domodossola c’è un sacco di brava gente appena arrivata dalla Svizzera che ora vuole creare per forza un governino pur di essere loro stessi dei ministrini».
La repubblica di Alba venne descritta così dal grande Beppe Fenoglio, partigiano autonomo:
«Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre 1944».
Durata dell’ esperimento: 23 giorni, conclusi da una fuga generale. Sentiamo ancora Fenoglio:
«Fu la più selvaggia parata della storia moderna: soltanto di divise ce n’era per cento carnevali. Fece impressione quel partigiano semplice che passò rivestito dell’uniforme di gala di colonnello d’artiglieria, con intorno alla vita il cinturone rossonero dei pompieri…».
In realtà la guerra civile fu di sangue e di fuoco. Con migliaia di morti da una parte e dall’altra. Dopo il 25 aprile ebbe inizio un’altra epoca altrettanto feroce. L’ho descritta nel libro che mi rende più orgoglioso fra i tanti che ho pubblicato: Il sangue dei vinti. Stampato da un editore senza paura: la Sperling e Kupfer di Tiziano Barbieri. Un buon lavoro professionale. Dal 2003 a oggi, nessuna smentita, nessuna querela, ventimila lettere di consenso, una diffusione da primato. Ma le tante sinistre andarono in crisi. E diedero fuori di matto.
Più lettori conquistavo, più venivo linciato sulla carta stampata, alla radio, in tivù. Mi piace ricordare l’accusa più ridicola: l’aver scritto quel libro per compiacere Silvio Berlusconi e ottenere dal Cavaliere la direzione del Corriere della Sera. Potrei mettere insieme un altro libro per raccontare quello che mi successe. Qui preferisco ricordare i più accaniti tra i miei detrattori: Giorgio Bocca, Sandro Curzi, Angelo d’Orsi, Sergio Luzzatto, Giovanni De Luna, Furio Colombo, qualche firma dell’Unità, varie eccellenze dell’Anpi, del Pci e di Rifondazione comunista. Tutti erano mossi dalle ragioni più diverse. Se ci ripenso sorrido.
La meno grottesca riguarda l’ambiente legato al vecchio Pci. Dopo la caduta del Muro di Berlino e la svolta di Achille Occhetto nel 1989, gli restava poco da mordere. Si sono aggrappati alla Resistenza.
E hanno inventato uno slogan. Dice: la Resistenza è stata comunista, dunque chi offende il Pci offende la Resistenza. Oppure: chi offende la Resistenza offende il Pci e gli eredi delle Botteghe oscure.
Ecco un’ altra delle menzogne spacciate ogni 25 aprile. Insieme alla bugia delle bugie, quella che dice: le grandi città dell’Italia del nord insorsero contro i tedeschi e li sconfissero anche nell’ultima battaglia. Non è vero. La Wehrmacht se ne andò da sola, tentando di arrivare in Germania. In casa nostra non ci fu nessuna Varsavia, la capitale polacca che si ribellò a Hitler tra l’agosto e il settembre 1944. E divenne un cumulo di macerie. In Italia le uniche macerie furono quelle causate dai bombardamenti degli aerei alleati. Che cosa resta di tutto questo? Di certo il rispetto per i caduti su entrambe le parti. Ma anche qualcos’altro. Quando viaggio in auto per l’Italia, rimango sempre stupito dalla solitaria immensità del paesaggio. Anche nel 2015 presenta grandi spazi vuoti, territori intatti, mai violati dal cemento.
È allora che ripenso ai pochi partigiani veri e ai figli dell’Aquila fascista. E mi domando se avessi avuto il loro stesso coraggio se fossi stato un giovane di vent’anni e non un bambino. Si gettavano alle spalle tutto, la famiglia, gli studi, l’amore di una ragazza, per entrare in un mondo alieno, feroce e sconosciuto. Erano formiche senza paura e pronte a morire. L’Italia di oggi merita ancora quei figli, rossi, neri, bianchi? Ritengo di no.
Giampaolo Pansa